lunedì 30 aprile 2012

Processi per collaborazionismo e crimini fascisti alla Corte d’Assise Straordinaria di Ivrea




Sessantacinque anni sono ormai trascorsi da quella primavera del 1945, che pose fine al periodo più buio della storia recente d’Italia.
Un periodo iniziato nei primi Anni Venti con l’uso sistematico della violenza contro le associazioni democratiche dei cittadini, le organizzazioni di categoria dei lavoratori, le leghe dei contadini “colpevoli” di chiedere migliori condizioni di vita.

“Ordine, disciplina e Patria” erano i valori con i quali si giustificarono violenze inaudite e spesso delitti efferati, condonati negli anni seguenti con la motivazione dell’essere stati compiuti “nell’interesse nazionale”.
Gli stessi valori e le stesse giustificazioni portarono alla soppressione delle libertà democratiche, all’instaurazione della dittatura, con la persecuzione di centinaia di migliaia di cittadini, all’avvio di guerre coloniali, per giungere infine a trascinare l’Italia nella più feroce e distruttiva guerra mondiale, che la trasformò in un cumulo di rovine.
Il tutto in poco più di venti anni, un periodo storicamente breve, nel quale, però, si concentrarono regressioni sociali e politiche e si aprirono ferite profonde che ancora oggi, a distanza di decenni, non sono state completamente sanate.

Nei tempi in cui viviamo, mentre l’insegnamento della storia contemporanea e quindi della lotta di Liberazione dal nazifascismo, viene trascurato dalle materie di insegnamento e gli storici relegati in ruoli sempre più marginali, sono invece giornalisti, politici, operatori della comunicazione in genere, che periodicamente suscitano tempeste mediatiche a sostegno di operazioni editoriali di successo, che “scoprono” e presentano come “novità” fatti deprecabili di violenza avvenuta ad opera di partigiani ai danni dei fascisti, dopo il 25 aprile 1945. Accadimenti già dibattuti da decenni dagli storici e sui quali esiste una vasta letteratura.

Forse legittimo dal punto di vista editoriale, il fatto non sarebbe preoccupante se il contesto sociale e politico attuale non presentasse aspetti di sostanziale disinteresse verso i valori, di libertà e democrazia, espressi dalla guerra di Liberazione.

Se da una parte la destra politica attua una continua attività mirante ad operare un revisionismo storico culturale, dall’altra parte, d’ altro canto le forze di sinistra hanno più o meno consapevolmente affievolito il riferimento alle tradizioni antifasciste col risultato di determinare un vuoto ideale e ideologico e l’oblio di un passato divenuto, nell’ottica dell’omologazione alle visioni economiche liberiste imperanti, improvvisamente ingombrante e importuno.
Il delicato periodo storico che va dal crollo del regime fascista (25 luglio 1943) alla piena consacrazione dello stato democratico con l’entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948) fu solo un tragico frangente di guerra civile, nel quale gli italiani si affrontarono con reciproche atrocità, come cerca di sostenere certa destra politica o fu invece un periodo storico di riscatto morale e politico sul quale gettò le basi e si sviluppò il nostro Paese?
Ed ancora, dopo il 25 aprile vi fu solo una spietata giustizia sommaria perpetrata da singoli o da gruppi, o lo stato democratico seppe fare i conti con il passato regime fascista ponendo le singole persone che favorirono e perpetuarono la dittatura di fronte alle proprie responsabilità applicando una rigorosa giustizia?

Non si possono certo affrontare questi complessi quesiti in poche pagine, si può però riassumere gli eventi principali e favorire una riflessione.

Nei giorni che seguirono il 25 aprile 1945, dopo la capitolazione delle forze nazi-fasciste, si scatenò un furore popolare che portò in alcune zone del Paese, dove più feroce era stata la repressione contro le bande partigiane e la popolazione che in varie forme l’ aveva sostenuta, a gravi fatti di giustizia sommaria verso gli appartenenti e i fiancheggiatori della Repubblica Sociale Italiana.
Migliaia di partigiani costretti a nascondersi, a sfuggire ai rastrellamenti, a sopravvivere in montagna e a combattere una guerra impari contro un esercito come quello tedesco efficiente ed organizzato e contro le brigate fasciste che lo sostenevano, si riversarono nelle città con l’ebbrezza dei vincitori e con un comprensibile desiderio di giustizia.
Persone segnate nel fisico e nell’animo, con amici caduti in combattimento o fucilati dopo indicibili torture, reclamarono a gran voce la punizione dei colpevoli e qualcuno non seppe aspettare la giustizia del nuovo stato democratico.

Le settimane che seguirono furono le più terribili per i vinti: migliaia di fascisti furono passati per le armi, spesso negli stessi luoghi dove erano stati fucilati partigiani e antifascisti.
Vecchi rancori riemersero da un passato al tempo non troppo lontano. Le uccisioni e le violenze, perpetrate dagli squadristi fascisti nei primi Anni Venti erano ancora vive nelle menti di chi le aveva subite, soprattutto in quelle zone della pianura Padana ove il fascismo si era imposto con maggior violenza.

La situazione fu talmente caotica che sfuggì di mano agli stessi Comandi della Resistenza e degli Alleati. Le direttive del Comitato di Liberazione Nazionale, tutte impostate sulla cessazione delle ostilità, dopo l’avvenuta capitolazione delle forze nazi-fasciste, trovarono delle oggettive difficoltà di applicazione, dovute alla difformità territoriale nelle quali la capitolazione avvenne. Ad esempio, mentre nell’ultima settimana di aprile del ’45 si festeggiava la liberazione, in alcune zone del Canavese e del Biellese continuavano i combattimenti e si contavano ancora caduti. La capitolazione dei nazi-fascisti fu firmata solo il 2 maggio ’45. Nella stessa Torino già liberata e con i manifestanti nelle strade, si ebbero ancora numerose vittime causate da gruppi di cecchini che dai tetti sparavano sulla folla.
I dirigenti del C.L.N. ebbero grande difficoltà a coordinare e sottoporre alle loro direttive i numerosi gruppi e formazioni partigiane che negli ultimi mesi di lotta erano cresciute a dismisura soprattutto negli organici; i successivi provvedimenti di disarmo delle brigate, con il passaggio delle competenze di ordine pubblico e quindi dell’arresto e detenzione dei presunti colpevoli di collaborazionismo e di delitti alla Polizia partigiana fu tutt’altro che facile, per la resistenza di singoli e di gruppi cha agivano in autonomia.

Causa quelli che cercarono di chiudere i conti nel peggiore dei modi, la Resistenza non scrisse in quei giorni le sue pagine migliori, ma sarebbe sbagliato considerare quel periodo con un facile moralismo di comodo che tutti accomuna.
Occorre rispetto ai morti e a quanti in buona fede si trovarono dalla parte sbagliata, ma gli ideali della Resistenza e di quelli che morirono per essi non sono equiparabili con quelli della parte avversa.

Il periodo di transizione (1943-47)

Dopo la caduta del governo Mussolini (25 luglio 1943) e il periodo badogliano si costituisce, il 18 giugno ’44, nelle zone liberate dagli Alleati il “Governo del Sud” considerato il legittimo Governo italiano in quanto sostenuto dai ricostituiti partiti democratici a differenza della sedicente Repubblica di Salò voluta e sostenuta dall’esercito tedesco.
Tra i primi atti legislativi del Governo presieduto da Ivanoe Bonomi presidente del Consiglio e dal figlio di Vittorio Emanuele III°, Umberto, nominato Luogotenente del regno, furono le Sanzioni contro il fascismo che punivano chi aveva promosso o diretto la svolta dittatoriale del 3 gennaio 1925; contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime fascista e a chi, dopo l’8 settembre ’43, aveva commesso delitti “ contro la fedeltà e difesa militare dello Stato.

La competenza fu affidata, per la prima categoria ad un’Alta Corte di Giustizia e per la seconda categoria alla magistratura ordinaria o militare secondo le norme vigenti.
I dirigenti politici e militari della Repubblica Sociale incorsero nei rigori dell’art. 5 del decr. 27 luglio 1944: “Chiunque, posteriormente all’ 8 settembre 43, abbia commesso delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione con il tedesco invasore, di aiuto o assistenza ad esso prestata è punito a norma del Codice penale di guerra.”
Disposizioni severe, comportanti anche la pena capitale e la confisca dei beni per i traditori della Patria, confermate ed inasprite nel successivo decreto legislativo del 22 aprile 1945 n°142 che considerò “collaboratore del tedesco invasore” chiunque avesse rivestito mansioni di comando.
Integrano gli estremi di aiuto al nemico, previsto e punito dall’art. 51 del Codice Penale Militare di Guerra, “la delazione ai danni dei partigiani, la partecipazione a rastrellamenti, la cattura, il ferimento e l’uccisione degli stessi in collaborazione con le forze armate tedesche.”

Lo stesso decreto, nell’imminenza della liberazione del Paese, istituiva le Corti d’Assise Straordinarie, affidando ad esse l’esclusiva competenza per tutti i reati di collaborazionismo.
Le C.A.S erano formate da un magistrato Presidente e da quattro giudici popolari estratti a sorte da un gruppo di cinquanta cittadini scelti dal Presidente, da un elenco di cento fornito dal C.L.N.

Già prima della Liberazione erano istituiti tra le forze partigiane dei “Tribunali del Popolo” che cercarono di amministrare la giustizia, anche se con molta improvvisazione e una certa sommarietà, nonostante il dichiarato impegno e la cura riposta nell’apparire come tribunali normali, con tanto di presidente, di pubblico ministero, di avvocati difensori e di giudici.
Sulle orme di questa sperimentazione giudiziaria, il C.L.N. sostenne la costituzione delle “Corti d’Assise del Popolo” come strumento di giustizia rivoluzionaria, ma furono osteggiate dal Governo Bonomi, che ribadì le prerogative della giustizia ordinaria, istituendo le Corti d’Assise Straordinarie con il già citato decreto legislativo 22 aprile 1945.

Questo provvedimento servì a smorzare il furore popolare e i rischi di una generalizzata giustizia sommaria, favorendo la normalizzazione e il consolidamento dello stato democratico.

I nuovi istituti giuridici, pur lavorando intensamente, si trovarono ad affrontare un’enorme emergenza processuale e carceraria: la Commissione alleata trasmise alle autorità italiane elenchi di centinaia di “spie, traditori e fascisti” che si assommarono alle liste elaborate dal l’Alto Commissariato che erano talmente folte di consiglieri, ispettori, segretari politici e componenti della milizia da renderne impensabile l’arresto e il giudizio.
Inevitabile dunque il paradosso di una giustizia “troppo sbrigativa nelle piazze, ma troppo lenta nei tribunali”

All’esito delle sentenze non era estranea la pressione psicologica esercitata dai cittadini che affollavano le aule di giustizia, mentre all’esterno potenti altoparlanti permettevano ad una folla minacciosa di seguire il dibattimento.
La presenza di amici e parenti dei partigiani uccisi spesso dopo strazianti torture rendevano incandescente il clima processuale; non rari i tentativi di linciaggio degli imputati, salvati a stento dalle forze dell’ordine.
Episodi di intimidazione degli avvocati difensori troppo zelanti e delle Corti che pronunciavano sentenze giudicate troppo miti si verificarono in molti luoghi dove l’oppressione nazi-fascista era stata più violenta. La cronaca riporta un caso nel quale la sentenza della Corte nei confronti di un imputato fu giudicata troppo mite dalla folla, che costrinse i giudici, seduta stante, a incrementare la pena.

L’episodio più incredibile avvenne al tribunale di Brescia, dove il 14 luglio 1945 un carabiniere scaricò il mitra contro l’ufficiale della Brigate nere Ferruccio Sorlini, rinchiuso nella gabbia dei prigionieri.
L’imputato condannato in prima istanza dalle C.A.S. aveva diritto di ricorrere ad un secondo grado di giustizia rappresentato dalla Corte suprema, che soprattutto in presenza di pene severe come le condanne a morte valutava se vi fossero stati particolari condizioni ambientali.

Le Corti di Assise Straordinarie rimasero in funzione sino al 1947, passando in seguito le incombenze alle Corti di Assise ordinarie.
In Piemonte, dove maggiore era stato il numero dei partigiani fucilati, dal giugno 1945 al dicembre 1947, sul totale di 3634 imputati, furono decretate 203 pene capitali (18 delle quali eseguite), 23 ergastoli e 853 pene detentive dai 5 ai 20 anni.



La corte Straordinaria di Assise di Ivrea.



Costituita nel giugno ’45, operò come Sezione Speciale di quella di Torino e fu presieduta dal dott. Nello Naldini.
La documentazione (sentenze, dibattimenti, verbali d’interrogatorio ecc.) prodotta nel corso della sua operatività è di straordinaria importanza per lo studio del periodo di transizione dal regime fascista allo Stato democratico non solo per quanto riguarda l’applicazione della giustizia, ma anche per la ricostruzione degli eventi bellici e della lotta partigiana in Canavese.
Se ormai gli avvenimenti più tragici della storia resistenziale in Canavese, come la fucilazione di numerosi patrioti, sono stati storicamente ricostruiti, poco sappiamo sul “come andò a finire”, .ovvero se furono individuate responsabilità individuali e se vennero perseguite.

Questa curiosità, ha portato Renzo Sarteur dell’Anpi ad iniziare una non facile ricerca negli archivi del Tribunale di Ivrea
Anche se non può dirsi conclusa, essa ha già prodotto apprezzabili risultati e una decina di sentenze, riguardanti alcuni tra i fatti più significativi, sono state acquisite.
Ad esempio i processi ai responsabili dell’uccisione del partigiano Aldo Balla, dell’ arresto e dell’impiccagione di Walter Fillak a seguito dell’attacco al comando partigiano di Lace, la sentenza emessa contro un doppio-giochista che, conquistata la fiducia del Comando partigiano della Valle d’Orco, tradì passando importanti informazioni al Comando germanico di Cuorgnè ed altre di grande importanza.

Dalla lettura e dallo studio delle sentenze e dei verbali d’interrogatorio è possibile non solo ricostruire con precisione questi fatti, ma talvolta comprendere anche le recondite motivazioni che portarono uomini “normali” a fare scelte che li portarono dalla parte sbagliata, fino a trasformarsi in feroci assassini.
Interrogati sul perché della loro adesione alla Guardia Nazionale Repubblicana, che di fatto, li rendeva strumenti in mano ai nazisti, molti di loro danno giustificazioni che lasciano perplessi: dalla buona paga che serviva per mantenere la famiglia, all’alternativa al lavoro coatto in Germania; pochi sono quelli coscienti di dover combattere contro i loro connazionali e ancora di meno quelli che facevano questo con convinzione. Almeno con il senno di poi!
Indicativo il processo contro alcuni militi della G.N.R. che nei momenti liberi dal servizio, si travestivano da partigiani e giravano per le cascine dell’eporediese, incamerando viveri e materiali vari; in una di queste razzie uccisero un giovane che ingenuamente si era dichiarato anche lui partigiano e ne ferirono gravemente il fratello.
Molte sentenze della C.A.S. saranno durissime e sanzioneranno la condanna a morte, poi trasformata in ergastolo, quindi in 30 anni; non di rado l’ effetto combinato di amnistia, indulto e grazia consentì ai condannati di ritrovarsi liberi nel giro di qualche anno.
In Francia nel 1950 i detenuti politici (i collaborazionisti seguaci di Petain) erano ancora 5000. Nel Belgio 6115. Se in Italia i processi per collaborazionismo avevano coinvolto circa 43.000 cittadini, nel 1950 in carcere ne rimanevano soltanto 442.

I paesi europei che avevano subito l’occupazione nazista fecero seriamente i conti con il fenomeno dei collaborazionisti: in Italia invece, ad appena 14 mesi dalla Liberazione, il 22 giugno 1946, un’amnistia a firma dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti aprì una porta, che si spalancò grazie ad una scandalosa applicazione e dalla quale uscirono in massa i principali responsabili del Ventennio Fascista.
La mancanza di una “vera” giustizia, verso i crimini commessi, condizionò il dopoguerra per molti anni e fu una delle cause che impedì alla nostra società la condivisione di una comune identità repubblicana.

Per saperne di più:

L’amnistia Togliatti di Mimmo Franzinelli Mondadori

Giustizia penale e guerra di liberazione di Guido Neppi Modana

Il sangue dei vincitori di Massimo Storchi Aliberti Editore



Trascriviamo di seguito la parte principale di una sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Ivrea .

Essa è stata emessa nei confronti di Del Corto Gianfranco, sotto-tenente del 4° Regg. Alpini, 2° Compagnia, Divisione Littorio, accusato dell’uccisione del parroco di Torrazzo, don Francesco Gabrio e di 3 altre persone ritenute a torto partigiani.

L’imputato al momento della sentenza è latitante, colpito da mandato di cattura del 27 agosto 1945.

FATTO E DIRITTO

E’ stato che nel pomeriggio del 15 novembre 1944, don Franco Gabrio, parroco di Torrazzo da soli trentasettegiorni, avendo inteso sparare in vicinanza della provinciale Ivrea-Biella ed appreso che erano stati catturati alcuni ostaggi, vestita la stola sacerdotale e munito del rituale vasetto di olio santo andò sul luogo ivi accertando che un reparto repubblichino aveva proceduto al fermo di due uomini, Carlo e Giovanni Menaldo e di due giovani Gariglio Arduino e Verdoia Mercurio, trasportandoli nella vicina cascina Olivotti.
Il Gabrio aveva cercato di avvicinare gli or detti quattro fermati per intercedere a loro favore, ma n’era stato impedito. Si era portato allora al bivio per Torrazzo e Biella assistendo alla sfilata del reparto che traeva seco i quattro fermati al cui indirizzo egli aveva fatto, con mano, un cenno di saluto.
Ma appena erano passati dinanzi a lui, dalla coda della colonna era improvvisamente partita all’indirizzo del Gabrio una raffica d’arma da fuoco che lo aveva abbattuto al suolo cagionandone la morte per dissanguamento.

Del tragico evento si sparse immediatamente la voce e subito il giorno dopo, alcuni militari del reparto repubblichino passati nelle formazioni partigiane, avevano dichiarato che uccisore di don Gabrio era stato certo tenente Dal Corto.
Quindici giorni dopo detto tenente trovandosi da qualche tempo nel territorio di Bollengo e poiché alcuni suoi alpini erano passati ai partigiani, accompagnato da alcuni soldati ed un caporale o caporal maggiore, si era messo in giro per le campagne per rintracciarli.
In quella stessa sera, 1 dicembre 1944, il quarantenne Gaido Giovanni con il proprio garzone ventitreenne Bond Michele, Cossavella Pietro ventinovenne e Ceresa Rossetto Giuseppe diciottenne, erano convenuti nella cascina di tal Igino Defrancisco per aiutarlo, dovendo una di lui mucca partorire. In abiti borghesi e completamente inermi, avevano sostato nella cascina al piano terreno e nell’attesa dell’evento si erano messi a giocare a carte con il Defrancisco.
Si erano improvvisamente presentati alla cucina, quattro militari con un graduato ed avevano chiesto del padrone e cosa facesse. Il Defrancisco subito fattosi dinanzi aveva dichiarato loro che attendeva il parto della mucca.
A tal risposta i militari, che avevano il cappello con la penna da alpini si erano fatti accompagnare nella stalla da uno di essi e toccando il petto della mucca si erano accertati della veracità dell’assunto del Defrancisco.

Usciti dalla stalla e nel ripassare per il cortile della cascina uno dei militari si era affacciato alla finestra della cucina e ne aveva spalancato le persiane constatando che vi si trovavano le summenzionate quattro persone. A tale constatazione il graduato aveva immediatamente puntato su di loro il suo fucile diffidando a non muoversi, subito incaricando un soldato di andare a chiamare il tenente. Dopo breve tempo dieci minuti circa, era comparso il Del Corto il quale aveva chiesto al Defrancisco per quale ragione i quattro si trovavano nella sua casa. Il Defrancisco aveva reiterato la spiegazione poco prima riferita ai militari, ma il Del Corto obbiettando che invece si trattava di “un covo di banditi” aveva estratto la propria rivoltella facendo fuoco, senza null’altro aggiungere, sui quattro disgraziati. Due di essi, il Ceresa Rossetto ed il Bond si accasciavano esamini, mentre il Gaido ed il Cossavella (quest’ultimo già ferito ad un braccio) cercavano di fuggire: il primo verso il cortile, il secondo sul dietro della cucina. Il Gaido veniva però subito freddato appena sul limitare dell’uscio mentre il Cossavella veniva parimenti abbattuto da altri colpi poco lungi.

Prima di allontanarsi il Dal Corto ed i suoi uomini si impadronivano dei documenti personali che il Bond ed il Ceresa Rossetto avevano indosso e che accertavano della loro regolare posizione ai fini degli obblighi militari.
La notizia dell’eccidio, rapidamente propagatasi aveva commosso profondamente la popolazione di Bollendo al punto che o stesso commissario prefettizio repubblicano si era visto costretto ad affiggere manifesto per annunziare che aveva denunciato il responsabile del “terribile assassinio” dei “quattro buoni ed onesti cittadini e lavoratori e rassegnate per protesta le dimissioni dalla carica e ne avrebbe fatto seguire anche quella dal partito se l’ingiustificato e atroce delitto fosse dovuto rimanere impunito.
In quella stessa sera molti abitanti di Bollendo ( i fratelli Giuseppe e Giacomo Gagliani, Lagna Alessandro e Bravo Florinda) erano stati fatti oggetto di minacce di violenza e la Bravo arrestata ad opera di un gruppo di militari di cui faceva parte il predetto Dal Corto.

Il giorno seguente 2 dicembre, l’autorità giudiziaria accadeva sul luogo per la ricognizione sui quattro cadaveri e per raccogliere le prime informazioni.
Successivamente il comando della Divisione “Littorio” ordinava che a carico del Dal Corto si procedesse penalmente. Contro di costui il Procuratore militare emetteva ordine di cattura, che non veniva però eseguito per persistente e reiterato rifiuto del Comandante del reggimento sotto il pretesto d’imprescindibili esigenze di servizio.
Questi fatti che la Corte ritiene accertati dai deposti assunti in dibattimento e per la lettura degli atti permessi dalla legge.
Ed infatti, quanto all’uccisione di don Gabrio il 15 novembre 1944, vi sono i deposti dei due Menaldo, il Verdoia, e Gariglio (vale a dire dei quattro fermati dalle truppe repubblichine) nonché di don Anselmino Fiotto e Brun.

Il Verdoia ed il Gariglio fecero esplicitamente il nome del tenente Del Corto quando rilasciarono ai carabinieri le dichiarazioni che hanno oggi confermato (vedi fol.41.44) ed il Gariglio ha anche precisato che detto tenente si trovava in coda alla colonna da dove era partita la raffica micidiale.
Meno espliciti i due Menaldo, ma anch’essi affermanti che i colpi che uccisero don Gabrio partirono dal fondo della colonna laddove, secondo il Menaldo Carlo (vedi fol 42) trovatasi un tenente “rosso di faccia e di capelli” vale a dire con le stesse caratteristiche che designano il prevenuto odierno. Non nasconde la Corte che una certa discordanza si nota fra i deposti del Menaldo Giovanni che a sparare sul parroco era stato “un soldato su ordine del tenente”, mentre il Verdoia ha parlato di una raffica in senso esecutivamente oggettivo, ed il Menaldo Carlo ed il Gariglio di una raffica dalla coda della colonna la dove si trovava il tenente. Sennonché tali discordanze paiono alla Corte non difficilmente superabili appena si ponga mente al particolare stato d’animo in cui i quattro testi si trovavano in quel triste frangente. Erano infatti, stati fermati, catturati, ingiuriati, percossi, minacciati di fucilazione indi incolonnati ed avviati verso un destino ignoto; in condizioni di spirito, quindi le meno adatte per una pacata ed esatta osservazione di quanto stava accadendo accanto a loro. Ma a confermare la Corte nel convincimento che autore dell’uccisione del parroco fu Del Corto e non altri, vi sono i deposti del Brun Anselmino e Fiotto. Il Brun, già compagno d’internamento in Germania del prevenuto, ha innanzi tutto deposto che il reparto cui Del Corto apparteneva, il 15 novembre 1944, si trovò proprio a passare in marcia di trasferimento da Ivrea a Mongrando, per la località dell’eccidio- La circostanza è d’importanza capitale giacchè accertata la presenza del giudicabile sul luogo controlla quindi i deposti dei quattro fermati. Non solo, ma il Brun ha anche confermato le dichiarazioni rese ai carabinieri (vedi fol 21) laddove ebbe ad affermare di avere inteso il Del Corto, parlando con i colleghi, dire di essere stato lui l’uccisore di don Gabrio.
Ha inoltre aggiunto di aver avuto conferma di ciò dal tenente medico e da altro ufficiale del corpo.

Ha infine spiegato che gli stessi partigiani avevano partecipato con lettera al comando degli alpini di voler vendicare il sacerdote trucidato, uccidendo il tenente biondo di cui non conoscevano il nome e che al seguito di tale minaccia il Del Corto era stato trasferito al comando di reggimento ad Ivrea. I testi don Anselmino e Fiotto hanno parimenti deposto di avere immediatamente appreso, da alcuni alpini passati nelle file partigiane, che a uccidere il parroco era stato il tenente Del Corto; ‘Anselmino ha anche asserito con esplicita dichiarazione di certo rag.Ramella già appartenente alla 5° Divisione d’assalto “Garibaldi” nei sensi su esposti.. Si è pertanto in presenza di un complesso imponente di particolareggiate circostanze concordanti e tutte convergenti a dare certezza della colpevolezza del prevenuto per l’omicidio del parroco.
La capacità soggettiva del prevenuto di simile misfatto trova altronde conferma nel successivo ed ancor più efferato eccidio di Bollengo per il quale le prove a di lui carico possono veramente definirsi incontrovertibili.

Già il giorno seguente, 2 dicembre il Defrancisco proprietario della cascina dove l’eccidio era stato consumato, riferiva (vedi fol 24) che il tenente vestiva una giubba a vento era alto circa mt.1,70 dall’apparente età di trent’anni, biondo di capelli e con faccia ovale. Connotati questi che corrispondono a quelli di Del Corto siccome riferiti dal tale Brun che lui lo conosceva e quali si evincono dalla stessa fotografia in atti, e in piena rispondenza con quelli riferiti dagli altri testi con la precisione, concordemente ammessa che il De Corto, in quell’epoca portava i baffetti. Ed appena venti giorni dopo tutte le persone…. non esitarono un’attimo ad indicare esplicitamente il Del Corto che già da qualche giorno si trovava di presidio a Bollendo quale autore dell’eccidio e l’indicazione fu così precisa, concorde e perentoria che lo stesso comandante della “Divisione Littorio” cui il Del Corto apparteneva, non potè fare a meno di ordinare che fosse aperto contro di lui il procedimento penale arenato per l’ostruzionismo veramente inqualificabile del superiore diretto dell’inquisito che ne rifiutò la consegna. Al dibattimento i testimoni hanno nella fotografia in atti, riconosciuto l’autore dell’eccidio con tutta pienezza, ove si escluda una certa perplessità da parte della Colossio Clotilde.

Ciò fermato la Corte ha però osservato che il primo capo d’imputazione dev’essere variato in quello di aiuto al nemico, pertanto dall’art.51 c.p.m.g.

E’ infatti certo che il 15 novembre 1944, allorquando venne ucciso il parroco don Gabrio, il Del Corto si trovava a compiere un rastrellamento in quella zona di Torrazzo dove abbondavano e stazionavano le formazioni partigiane. Lo hanno esplicitamente dichiarato i testi don Anselmino e Fiotto Celso ( fol.25) ed è oggettivamente comprovato dall’avvenuto fermo dei due Menaldo, del Verdoia e del Gariglio quali sospetti favoreggiatori dei partigiani e dalla nutrita sparatoria la quale aveva determinato l’intervento sul luogo del buon parroco Gabrio nell’eventualità che feriti o fermati destinati alla morte necessitassero dei supremi conforti della religione. Parimenti la sera dell’eccidio di Bollendo (11.12.1944) il Del Corto con il drappello dei suoi uomini, si trovava alla ricerca di alcuni alpini che, disertato le file repubblicane, si riteneva dai comandi nazi-fascisti, fossero passati in quelle partigiane o comunque fossero stati nascosti nelle cascine di civili parteggianti per il movimento di liberazione. Onde il Del Corto, se con l’una o con l’altra delle su esposte operazioni, compiva atti diretti a nuocere alle operazioni delle forze armate dello Stato legittimo italiano in quanto tentava di indebolire e neutralizzare l’azione dei partigiani in quell’epoca già riconosciuta dal predetto Stato italiano quali forze ausiliarie nella lotta contro il tedesco ai sensi e per gli effetti dell’art. 7 del c.p.m.g.. Azione del Del Corto ricadente indubbiamente sotto le locuzioni di cui all’art.51 del summenzionato codice si tratta peraltro, nel riguardo del primo capo di imputazione, di una diversa qualificazione giuridica del fatto contestato che si estende anche e comprende azioni di rastrellamento; per nuovo che pare alla Corte ben applicabile il disposto dell’art.477 del codice di rito.
Ma la responsabilità del prevenuto, certa e completa, per il delitto di cui al già accennato art.51 c.p.m.g. per il semplice fatto di aver egli partecipato alle due azioni di Torrazzo e di Bollengo per rastrellare partigiani e presunti loro favoreggiatori e per rintracciare i disertori ed i loro pretesi ricettatori, deve essere inoltre e distintamente affermata anche per gli altri due capi di imputazione concernenti l’uccisione di don Gabrio ed il successivo eccidio di Bollendo. Perché è chiaro, a giudizio della Corte, che entrambi tali tragici eventi non avvennero affatto per necessità od in stretta, inscindibile, connessione con esse, siccome in dipendenza ed estrinsecazione di un fanatismo e settarismo politico che, anche per la piega presa dagli eventi bellici in senso sempre più sfavorevoli alle forze nazi-fasciste, andava lentamente compiendosi in folle e malvagia disperazione.

Se infatti, un poco nebuloso è apparso il dinamismo dell’azione che sbocco nella tragica uccisione del parroco di Torrazzo, è pur tuttavia indubbio che don Gabrio ebbe a trovarsi sul luogo e fu trucidato non già per prendere in qualche modo efficace parte all’azione partigiana contro le forze repubblicane cui pervenuto appartenne, ma per applicare i doveri del suo sacro ministero, come sta ad attestarlo inequivocabilmente la circostanza che seco aveva la stola, il rituale ed il sacro….illeggibile.

Ma l’eccidio di Bollendo, oggi rivissuto dalla Corte in ogni suo dettaglio, attraverso il deposto dei coniugi Defrancisco che ne furono diretti testimoni, non lascia neppure la possibilità del più tenue dubbio che possa altrimenti spiegarsi se non con la malvagia brutalità del prevenuto. Si trattava infatti di quattro civili in abiti borghesi e completamente inermi in atteggiamento per niente offensivo o minaccioso qualunque codeste apparisse agli occhi ed alla mente del Del Corto la supposta ragione della loro presenza nella tragica cascina. Presenza nella quale il prevenuto, con tutta facilità avrebbe potuto sincerarsi mediante l’eventuale esame delle carte….quelle carte che accertavano della loro regolare posizione anche ai fini degli obblighi militari imposti dal dispotico, illegittimo governo repubblicano e che perciò vennero dall’imputato e dai suoi dipendenti trafugate in quanto costituivano il più formidabile elemento di accusa contro di loro. Si è pertanto in presenza, quanto per l’uccisione di don Gabrio che per l’eccidio di Bollendo, di cui delitto di omicidio previsto e punito dal codice penale comune ed in concorso con l’aggravante dell’art.61 n°5 in dipendenza dello stato di guerra, come questa Corte ha costantemente ritenuto sussista del genere con la piena approvazione della Corte Suprema.

Per gli accennati omicidi non è più applicabile la pena di morte a seguito del d.l

10.8.1944 n° 224 entrato in vigore nell’Italia del Nord all’atto del passaggio di detta zona all’amministrazione italiana, vale a dire il 1 gennaio 1946.

In luogo della pena di morte deve quindi applicarsi l’ergastolo. Questa pena peraltro, resta assorbita da quella capitale, inflitta dall’art 51 Codice pen. Militare di guerra, che la Corte ritiene d’invocare, non ritenendo il Del Corto meritevole di attenuante alcuna, nemmeno di quelle generiche.. Deve condannarsi il Del Corto alle spese ed alla confisca dei beni, ove e, se possibile, per essersi esso messo al servizio del tedesco invasore e pensa che gli torni applicabile alcuna delle circostanze previste dall’art. 7 del 27.07.1944 n 159 e di cui è cenno nell’art. 1 d.l.lt 31.5.1945 n°364.
La Corte
Dichiara Del Corto Gianfranco colpevole:
-di aiuto al nemico con modificato il primo capo di imputazione.
-di quadruplice omicidio aggravato in persona di Ceresa Rossetto Giuseppe, Gaido Giovanni, Cossavela Pietro e Bond Michele
-di delitto di omicidio aggravato in persona del sacerdote Gabrio don Francesco.

Letti gli articoli 51 c.p.m.g in relazione agli art 5.9 dlt 27.7.44 n° 159 ed 1 d. l lt. 22.4.1945 142. 575. 61 in relazione il 30.11 1942 n 1365 ed 1 d.lt 10.8.1944 n 224, lo condanna alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena in essa pena assorbita quella dell’ergastolo per i due delitti di omicidio, alla confisca dei beni e alle spese.

Il Presidente Naldini Dott. Nello Ivrea 20 marzo 1946

Conclusione

La pena di morte non fu mai eseguita: Gianfranco Dal Corto era riuscito ad espatriare in Brasile. In seguito, la condanna venne trasformata in ergastolo; in data 22.2.1954 il Tribunale di Ivrea dichiarò commutata in 10 anni la pena dell’ergastolo.

Il D.P.R. 11.7.1959 n 460 in materia di reati politici, stabilì che i reati fossero prescritti anche ai condannati che si trovavano all’estero, previa presentazione alle Autorità Consolari.
Gianfranco Del Corto si presentò al Consolato Italiano il 28 agosto 1959.

La Corte di Assisi d’Appello di Torino in data 8 ottobre 1959, in ottemperanza al su indicato decreto dichiarò estinti per amnistia i reati di aiuto al nemico e di omicidio plurimo per i quali era stato condannato il Del Corto, che ottenne la piena libertà, senza aver scontato un solo giorno di carcere.



Articolo pubblicato su “Canaveis” n° 18

Etichette: , , , ,

MICHELANGELO ROLANDO



MICHELANGELO ROLANDO

La passione e il tormento dell’arte



Presso la ex ceramica Pagliero di Spineto, che si conferma ancora una volta come il centro culturale e d artistico di Castellamonte oltre alla esposizione dei “pitociu” e delle personali degli artisti Miro Gianola e Brenno Pesci si è svolta del 24 marzo al 2 aprile anche un’importante esposizione retrospettiva delle opere del noto pittore e ceramista Michelangelo Rolando vissuto nella prima metà del ‘900.

La mostra curata e organizzata da Emilio Champagne con il patrocinio dall’Associazione Terra Mia e in collaborazione con Ceramiche Cielle ha esposto ventitre opere ( 20 ceramiche e tre dipinti) che ben rappresentano la poliedricità e l’estro creativo del Rolando.

Sono più di 50 anni che non venivano esposti i lavori dell’artista, l’ultima mostra , effettuata nel 1953, fu un vero evento che coinvolse tutta la città anche perché in quella occasione Castellamonte onorò assieme a Michelangelo Rolando un altro illustre cittadino: lo storico Michelangelo Giorda che proprio in quell’ anno dava alle stampe il volume Storia civile e religiosa di Castellamonte , che ancor oggi anche se ormai introvabile, rappresenta la più importante ricerca storica realizzata su Castellamonte.

In quella occasione, alla presenza delle autorità e del folto pubblico il giornalista e critico d’arte Carlo Trabucco tessendo gli elogi dei due personaggi con l’eloquenza forbita che le era propria e con un pizzico di sano campanilismo, non esitò ad affermare che....se l’Italia poteva vantare un solo Michelangelo, Castellamonte ne poteva vantare addirittura due. Frase bonariamente ironica, ma che voleva sottolineare come al tempo Castellamonte si distingueva per la creatività culturale e artistica dei suoi cittadini.

Michelangelo Rolando ( 1901-1954) sin da giovane manifesto le sue inclinazioni artistiche, lavorò negli stabilimenti ceramici della città, alla Pagliero lo stabilimento che attualmente ospita la sua mostra, nel 1931 raggiunse la qualifica di modellatore, ma il suo carattere irrequieto lo portò a vivere varie esperienze, comprese quella dell’emigrazione. Lavorò a Marsiglia presso le “Ceramiques artistiques” ma il richiamo della sua terra lo riportò presto tra di noi a vivere il sogno della libera arte.

Alto di statura, capo eretto, pizzo biondo rossiccio, seduto negli angoli più caratteristici della nostra contrada per ritrarne sulla tela gli aspetti, oppure con la chitarra a tracolla o ancora intento a modellare la creta di Filia, così lo ricordano i castellamontesi più anziani. Ma Michelangelo Rolando fu qualcosa di più di un personaggio caratteristico della nostra cittadina.

Fu scultore e pittore di indubbio talento e di spiccata personalità, con un’estrosità senza pari, propria solo agli uomini di genio.

Celeste Ferdinando Scavini noto pubblicista di Rivarolo e sincero amico di Rolando ne esalto le doti artistiche e lo rese conosciuto ed apprezzato anche fuori dai confini canavesani.

La mostra ospitata nell’ex stabilimento Pagliero di Spineto, ha presentato alcune delle più significative opere, provenienti da collezioni private canavesane, e ha rappresenta un’occasione unica per conoscere ed apprezzare questo grande artista.

Le manifestazioni artistiche svoltesi alla ex Pagliero hanno registrato un successo di pubblico degno della più celebrata annuale Mostra della Ceramica e ciò è stato possibile ottenere senza finanziamenti pubblici, ma solo grazie alla disponibilità della proprietà (Ceramiche Cielle di Daniele Chechi) e dal lavoro volontario degli appassionati .

Etichette: , ,

FABBRICA ITALIANA GRES CERAMICO. Castellamonte

FABBRICA ITALIANA GRES CERAMICO. Castellamonte




Il sito attualmente occupato dalla Società A.S.A. ha ospitato per tutto il secolo XX attività legate alla produzione ceramica.
Nel 1905 in quella zona prospiciente la strada che conduceva al greto del torrente Orco, dal quale si estraeva materiale ( pietre, sabbia e ghiaia) per le costruzioni e che veniva denominata “strada del ghiaro”, sorse una fabbrica per iniziativa dei fratelli Pagliero Terenzio, Michele e Romualdo in società con l’ingegner Luigi Magnardi un torinese residente a Castellamonte.
La fabbrica denominata “Fabbrica Italiana di Grès e affini” iniziò la produzione di tubi in grès e materiale refrattario.

E’ bene ricordare che il cosiddetto grès è un particolare tipo di ceramica refrattaria molto resistente e inattaccabile agli acidi.
Con questo materiale si costruirono i tubi per le fognature e furono questi i principali prodotti nella quale la fabbrica si specializzò.
Lo stabilimento poteva utilizzare le acque del Canale di Caluso che transitava nelle vicinanze e che servivano per le lavorazioni e per fornire forza idraulica prima e d elettrica poi.
Disponeva anche di proprie cave di argilla, situate nella collina in regione Onghiano e Valdrimes.

Lo stabilimento era dotato di due ciminiere, che per fortuna sono giunte sino a noi sopravvivendo alla distruzione dello stabilimento. Delle due ciminiere se ne nota una, più corta. Ma dalla fattura più accurata e massiccia. Questa fu progettata per essere più alta ancora di quella esistente, ma per motivi che non conosciamo fu interrotta, probabilmente cambiarono le necessità produttive in corso d’opera, o forse si giudicò la sua altezza eccessiva o si cercò di risparmiare.

Il sodalizio dei fratelli Pagliero con l’ing. Magnardi naufrago presto per divergenze sorte nella conduzione dello stabilimento e sue azioni furono rilevate dal Lionello NIgra figlio dell’ambasciatore Costantino Nigra di Castelnuovo.
Problemi finanziari sorti dopo la prima Grande Guerra portarono nel 1919 all’avvicendamento di un altro gruppo finanziario con sede a Torino e lo stabilimento cambiò la denominazione in “Società Cave Italiane Riunite Torino” ma ebbe vita breve e nel 1921, la fabbrica, le cava e tutte le proprietà immobiliari confluirono in una nuova Società denominata “Fabbrica Italiana Grès Ceramico e affini “ con sede in Castellamonte.
Fondatori e azionisti della nuova Società che disponeva di un capitale di 300 mila lire erano l cav. Raffaele Ranza, il cav.rag.Giovanni Allaira entrambi industriali e altre personalita castellamontese e del vicinato.

Fin dai suoi primi anni di attività si conquistò una posizione di rilievo nel mercato nazionale per l’ottima qualità dei suoi prodotti di grès ceramico. Nel 1929 partecipò alla Prima Mostra dell’Artigianato organizzata dalla provincia di Aosta.
Nel 1931 venne annoverata tra le più importanti fabbriche canavesane del settore. Ottenne anche la commessa per la fornitura delle tubazioni in grès per il costruendo stadio di calcio di Torino.
Il 31 dicembre 1942 l’assemblea dei soci, decise la fusione della società con L’Azienda Nazionale Cogne spa di Aosta con il compito di fornire ai suoi stabilimenti i materiali refrattari necessari alla produzione.

Sotto il marchio della Cogne continuo la produzione impegnando in media un centinaio di lavoratori, sino sul finire degli anni Settanta del secolo scorso, quando fu rilevata dai fratelli Camerlo di Spineto che gestivano anche la fabbrica ex Pagliero di Spineto.
La sua attività continuò ancora per un decennio poi dopo la chiusura definitiva, sorse sul suo sito l’ASA.
Come si è visto in quasi un secolo di attività la fabbrica ha cambiato diverse volte la denominazione, ma per i castellamontese doc è sempre rimasta il “GREC” che è da intendersi come una deformazione della parola “GRES”.



Etichette: , , , ,

Dall’Aspromonte al Forte di Bard

Dall’Aspromonte al Forte di Bard


Nelle carte dell’archivio comunale d’Ivrea, il passaggio di 500 prigionieri garibaldini in Canavese. Una pagina triste e sconosciuta del nostro Risorgimento.

Chi frequenta gli archivi storici sa bene che le sorprese non finiscono mai. Si può passare giorni alla ricerca di qualcosa che non si troverà, o imbattersi in una serie di documenti interessanti, che non si sarebbe mai pensato di trovare.
Qualche mese fa, insieme all’amica ricercatrice Josè Ragona, stavamo cercando nell’Archivio della città di Ivrea, documenti riguardanti l’epidemia di colera che colpì il Canavese nei primi anni dopo l’Unità d’Italia.
Casualmente ci finì tra le mani una cartella con su scritto: Prigionieri Garibaldini anno 1862.

La cosa ci incuriosì : prigionieri di chi? ..e poi la data, il 1862, l’anno seguente la proclamazione dell’unità d’Italia. Aperta la cartella, la sorpresa si tramutò in stupore. Garibaldini arrestati dal governo italiano, in transito ad Ivrea e diretti al forte di Bard, e soprattutto il loro numero: 500…mica una decina di furfanti che sempre si trovano negli eserciti. Dovemmo pensarci un pò, richiamando alla memoria le vicende storiche di quegli anni e realizzammo che doveva trattarsi della sfortunata spedizione di Garibaldi alla conquista di Roma e del suo ferimento sull’Aspromonte. La discreta documentazione eporediese fornì lo spunto per la ricostruzione di una vicenda piena d’entusiasmo e idealità, ma iniziata in tempi ancora non maturi e destinata al fallimento.

Abbiamo così deciso di ricordarla, anche se essa non è delle più luminose della nostra storia Risorgimentale.



Garibaldi alla conquista di Roma



Tutti sanno quanto la “questione romana”, vale a dire liberare Roma e i territori dello stato pontificio dal potere del Papa, stesse a cuore a Giuseppe Garibaldi.
Nel 1862, nonostante l’unità nazionale fosse stata proclamata l’anno prima, Roma, il Lazio e il nord-est ancora mancavano al compimento dell’Italia.
Giuseppe Garibaldi disgustato dalle vicende politiche seguenti la proclamazione di Vittorio Emanuele re d’Italia si ritirò a Caprera, ma vi rimase poco.

Nel giugno del ’62 in Sicilia la situazione politica precipitò: l’occupazione piemontese e la politica adottata avevano creato delusione nel popolo, il quale sperava in un cambiamento in realtà mai avvenuto. Il pericolo di un’insurrezione popolare era imminente, e il prefetto di Palermo Pallavicino, amico di Garibaldi, sapendo della popolarità che esso godeva tra i siciliani lo chiamò a Palermo. Garibaldi non restò insensibile e decise di raggiungere in segreto l’isola. Solo pochi amici fidati furono a conoscenza della partenza e uno di questi scrisse ad un amico: ”l’aquila è volata al sud”
Il 28 giugno arrivò a Palermo. Il calore e l’affetto con cui i siciliani l’accolsero e le folle sterminate ed acclamanti lo persuasero che con gente così animata, avrebbe potuto compiere l’impresa che da sempre agognava: la conquista di Roma.

Garibaldi era consapevole, che la sua iniziativa non sarebbe stata facile: Roma e il Papa erano sotto la protezione della Francia e di Napoleone III. Inoltre non avrebbe potuto contare su nessun aiuto da parte del neo re d’Italia Vittorio Emanuele II in quanto non avrebbe rischiato di pregiudicare l’alleanza della Francia al suo giovane Stato.
L’unica possibilità per il generale era quella di una sollevazione popolare nello stato Pontificio e una sua conseguente vittoria militare che mettesse la Francia, l’Italia e l’Europa intera di fronte ad un fatto compiuto.

Il 15 luglio arringò il popolo palermitano con infuocate parole:

“Il padrone della Francia, il traditore del 2 dicembre, colui che versò il sangue dei fratelli di Parigi, sotto il pretesto di tutelare la religione e il Cattolicesimo, occupa Roma . Egli è mosso da sete infame di impero, egli è il primo che alimenta il brigantaggio. Popolo dei Vespri. Popolo del 1860, bisogna che Napoleone sgombri Roma. Se è necessario, si faccia un nuovo vespro…A Roma vi giungeremo, ma con le armi, vi giungeremo con il santo programma con cui passammo il Ticino e sbaragliammo gli austriaci, con cui sbarcammo a Marsala e venimmo qua a dividere le sorti di voi, bravi palermitani.”
 Dalla folla scaturì il motto “Roma o morte” e fu il motto della nuova impresa garibaldina, scritto sulla bandiera accanto al vecchio Italia e Vittorio Emanuele.

I giorni che seguirono, furono ferventi di preparativi, da ogni parte dell’isola e anche dal continente affluirono volontari, armi e munizioni.
Ben presto furono armati tremila volontari che si accamparono nella foresta della Ficuzza.
Le più alte dame di Palermo gareggiavano con le popolane nel confezionare camicie rosse per la spedizione romana. Le sorti della legione garibaldina erano però segnate: in quei giorni dominava più che mai, nei consigli della Francia l’imperatrice Eugenia, lei che disse al nostro Costantino Nigra, con una punta di disprezzo allorché parlava dell’Italia : “ Morte finchè si vuole, Roma mai !!”

Le sorti erano segnate, il governo Rattazzi ordinò al prefetto di Palermo di reprimere l’insurrezione ad ogni costo anche arrestando Garibaldi, ma egli rifiutò sdegnosamente di obbedire e diede le dimissioni.
Il re nominò prefetto di Palermo e comandante militare dell’isola il generale Efisio Cugia e il 3 agosto pubblicò il seguente proclama:



Italiani! Nel momento in cui l’Europa rende omaggio al senno della nazione e ne riconosce i diritti, è doloroso al mio cuore che giovani inesperti ed illusi, dimentichi dei loro doveri, della gratitudine ai nostri migliori alleati, facciano segno di guerra il nome di Roma, quel nome al quale intendono concordi i voti e gli sforzi comuni. Fedele allo Statuto da me giurato, tenni alta la bandiera dell’Italia fatta sacra dal sangue e gloriosa dal valore dei suoi figli. (…)
Italiani! Guardatevi dalle colpevoli impazienze e dalle improvvide agitazioni. Quando l’ora del compimento della grande opera sarà giunta, la voce del vostro Re si farà udire tra voi.
Ogni appello, che non è il suo, è un appello alla ribellione, alla guerra civile. La responsabilità e il rigore delle leggi cadranno su coloro che non ascolteranno le mie parole.”



Lo scontro a fuoco tra bersaglieri e garibaldini e il ferimento di Garibaldi.



Garibaldi ebbe notizia delle posizioni assunte dal governo e dal Re quando già aveva iniziato la marcia verso Catania dove entrò da trionfatore.

A Catania il suo esercitò raggiunse il numero di 5.000 volontari. Il 25 agosto, dopo aver sequestrato due piroscafi, il “Dispaccio” e il “Generale Abatucci”, con 3.000 volontari sbarcò sulle coste Calabresi.
Intanto la politica faceva il suo corso. Il governo Rattazzi, deciso ad evitare con ogni mezzo un incidente diplomatico con l’alleato francese, diede ordine al generale Cialdini di mobilitare le truppe regie e di marciare contro le truppe garibaldine.
Giuseppe Garibaldi con l’intento di evitare lo scontro con le truppe regie si diresse verso Aspromonte, dove i suoi volontari si accamparono stanchi ed estenuati dalla fame, dopo una marcia di 40 ore
Ancora una volta il generale proibì severamente di aprire il fuoco contro i regolari e prese posto in prima linea, davanti alla strada dalla quale le truppe regie dovevano salire.

In quel momento ancora sperava che le truppe regolari non avrebbero sparato e non gli avrebbero sbarrato la strada per Roma.

I bersaglieri regi però, divisi in due colonne, riuscirono a circondare i garibaldini e verso le 5 pomeridiane i bersaglieri aprirono il fuoco.
Giuseppe Garibaldi, ritto e immobile in mezzo ai suoi urlò di non rispondere al fuoco, di non uccidersi tra fratelli, ma la sparatoria era ormai iniziata e anche quando fu colpito di striscio ad una coscia continuò ad urlare “Non sparate, viva l’Italia”, quando una palla lo colpì al piede e cadde tra le braccia di Enrico Cairoli che assieme ad altri lo trascinarono sotto un albero.

Sparsasi la voce che Garibaldi era stato colpito e ferito due volte, un fremito d’ira e d’indignazione corse tra i volontari, ma anche tra le truppe regolari. Imprecazioni e accuse gli uni contro gli altri e contro chi aveva iniziato la sparatoria. In quel mezzo il generale Pallavicini si avvicinò, scese da cavallo e toltosi il cappello lo pregò di arrendersi, in quanto non aveva patti da offrire, ma “solamente l’ordine di combatterlo”.

Garibaldi non aveva alternative, gli raccomandò i feriti, e si consegnò ai regolari, che lo condussero sulla costa e imbarcato a bordo del vapore “Duca di Genova” lo condussero in stato di arresto al forte di Verignano.



L’imprigionamento dei volontari garibaldini e le conseguenze politiche



Questa è sostanzialmente la tragica vicenda della spedizione garibaldina per la conquista di Roma e del ferimento del Generale sull’Aspromonte.

Su molti libri di scuola la disavventura di Garibaldi sull’Aspromonte fu trattata in modo frettoloso. Poca attenzione fu soprattutto dedicata alle conseguenze politiche, che questo scontro fratricida scatenò.
Intanto il combattimento, anche se durò poco, provocò 7 morti e 25 feriti tra i soldati governativi e 5 morti e venti feriti, tra i quali Giuseppe Garibaldi, tra i volontari.
Ma poco si seppe sulla sorte dei 3.000 garibalbini sbarcati con Garibaldi sulle coste calabre.

Presubilmente molti, appreso che le truppe inviate dal governo Rattazzi avevano l’ordine di fermarli ad ogni costo, si dispersero lungo la marcia verso l’Aspromonte.
Dopo la battaglia e l’arresto di Garibaldi, la “grande storia” segue gli accadimenti successivi, mentre le stesse biografie dell’Eroe si soffermano più sulla lenta guarigione delle sue ferite che sulle vicende e le conseguenze che i volontari garibaldini ebbero a soffrire.



Le cifre ufficiali parlano di 1909 prigionieri.

Peggior sorte toccò a quei soldati dell’esercito di stanza in Sicilia che seguirono volontariamente Garibaldi nella sua avventura.
Considerati disertori, furono immediatamente fucilati e il loro numero non si conobbe con esattezza, variando notevolmente secondo le fonti, dalle decine alle centinaia.
Le notizie degli scontri sull’Aspromonte e il ferimento e dell’ arresto di Giuseppe Garibaldi furono apprese con sgomento da tutto il Regno. Scontri antigovernativi avvennero in diverse città italiane e forte emozione suscitò tra i liberali europei.
In Parlamento soprattutto la Sinistra che la Destra accusarono il governo Rattazzi di aver prima appoggiato Garibaldi per poi abbandonarlo, dimostrandosi arrendevole di fronte gli interessi francesi.



Il destino dei prigionieri garibaldini e il loro arrivo a Ivrea



Cerchiamo ora di seguire le sorti dei prigionieri: la letteratura ci dice che essi furono divisi e inviati in varie località, come Ischia, Monteralli, e il forte di Vinadio.

Dalle carte dell’archivio di Ivrea però, apprendiamo che 500 di questi prigionieri giunsero a Ivrea diretti al forte di Bard.
La notizia giunse al Sindaco d’Ivrea il 5 settembre 1862 da parte del sotto-prefetto del Circondario d’Ivrea, il quale comunicò l’arrivo di 500 prigionieri garibaldini e di un battaglione di fanteria come scorta. Inizialmente si pensò che i prigionieri non si fermassero a Ivrea, ma proseguissero direttamente verso il forte di Bard. Nella missiva, il sotto-prefetto, così scrive:

 “Non vi sarà fermata è vero, perché debbono procedere appena discesi dalla ferrovia; ma è duopo essere cauti.
Crederei prudente che vi fosse un pò di Guardia Nazionale comandate in piazza unicamente per impedire qualunque manifestazione nè pro nè contro.
Dabbene non si dubiti della morigeratezza e della prudenza di questa buona popolazione, io trovo opportuno, incaricato anche dal sig.Ministro di usare la massima precauzione all’uopo e di prevenire qualunque inconveniente”.



Evidentemente le autorità militari locali non erano molto informate. Una lettera successiva sempre della sotto-prefettura accenna all’eventuale fermata ed è più rigida in fatto di sicurezza:

“Onde non si rinnovino i disordini avvenuti nella notte dal 31 agosto e potendo darsi che i prigionieri garibaldini destinati al Forte di Bard giungano in questa città nella sera di sabato o domenica, il sottoscritto si fa a pregare il sig. Sindaco di Ivrea a volersi compiacere di disporre che un consistente numero di Guardia Nazionale sia in tale opera chiamata a tutelare l’ordine pubblico eseguendo nelle ore notturne pattuglie regolari nelle vie della città".

Effettivamente, come i successivi documenti affermano i prigionieri faranno tappa ad Ivrea.

Essi giunsero per ferrovia la mattinata del 7 settembre, quindi considerando che gli scontri sull’Aspromonte avvennero il 29 agosto, dopo 9 giorni.
Imbarcati dalla costa calabra il giorno seguente con una nave a vapore raggiunsero Genova, poi per ferrovia Ivrea. Un viaggio estenuante stipati, nella stiva della nave prima e nei vagoni angusti dell’epoca poi.
Si può ben immaginare che all’arrivo ad Ivrea le loro condizioni di salute non furono certo delle migliori.
Il loro arrivo e l’imprevista fermata mobilitò le autorità municipali a cui toccò l’incombenza di trovare una sistemazione, fornire le razioni di viveri e i soccorsi sanitari, oltre a garantire la sicurezza..
Nella stessa mattinata in cui i prigionieri garibaldini si apprestavano a giungere in stazione e mentre la municipalità cercava ancora di mobilitare la Guardia Nazionale giungeva la richiesta di aumentare ancora gli organici.

7 settembre 1862 Richiesta di una compagnia della Guardia Nazionale, per servizio straordinario in città.

"Attesa l’impreveduta fermata in questa città per tutta la ventura notte dei 500 prigionieri garibaldini testè giunti per la via ferrata, nell’interesse della pubblica tranquillità e come misura prudenziale il Sotto.prefetto invita il sig.Sindaco di Ivrea ad ordinare che invece di un drappello di Guardia Nazionale, sia chiamato sin da ora ed al più presto possibile una compagnia di detta comunità nazionale e che siano poi questi stessi raddoppiate le pattuglie già ordinate, alcune delle quali pattuglino continuamente nei vicoli e contrade adiacenti al sito ove detti prigionieri trovandosi acquartierati e le altre il restante della città".

Dello stesso giorno un’altra missiva intima che:

"….considerata l’urgenza di provvedere al collocamento e ricovero per questa notte dei prigionieri garibaldini e del battaglione di scorta e ritenuta l’opportunità e convenienza che siano ritirati in uno stesso locale nell’interesse della sorveglianza e custodia di essi prigionieri e della tranquillità pubblica,si ritiene di occupare oltre il piano terreno già conceduto del Seminario grande, anche i piani superiori dello stesso in quanto può dalle informazioni assunte e dall’esame fatto sul luogo consta che il convitto vescovile e le attigue residenze non bastano al bisogno".

Non è difficile immaginarsi la concitazione nella quale era piombata la tranquilla cittadina di Ivrea, che nell’arco di un paio di giorni si trovò ad affrontare un evento complesso e inaspettato.
Nella documentazione cittadina si trovano le lunghe liste di spese sostenute dalla municipalità, che vanno dalle razioni alimentari, al soccorso sanitario, al foraggio per i quadrupedi del battaglione di scorta.
Per la sistemazione notturna fu requisito il seminario vescovile, il convitto nazionale e luoghi limitrofi dove si montarono le tende.
Non risulta da nessun documento, che in città vi siano state dimostrazioni a favore dei garibaldini, come peraltro successero in altre città, quindi dobbiamo pensare che la notte trascorse tranquilla e al mattino la lunga colonna di prigionieri si incamminò per il forte di Bart.

La sfortunata vicenda garibaldina, se per un verso era stata neutralizzata secondo le intenzioni del governo Rattizzi e del re, dall’altro aveva scatenato le piazze e ridato fiato ai rivoluzionari di ogni sorta, che si saldavano con l’indignazione della maggioranza dell’opinione pubblica.
Giuseppe Garibaldi ferito dai piemontesi e agli arresti, così come 1900 garibaldini, detenuti nelle celle malsane dei forti e delle prigioni borboniche, appena un anno dopo che tutta l’Italia li aveva celebrati come eroi, era una cosa intollerabile anche per il governo e la corte

Ma liberare i garibaldini e Garibaldi, sotto la pressione popolare, senza processo, si rischiava di compromettere il Re, che doveva dimostrare che lui con quell' azione rivoluzionaria non c'entrava proprio per nulla. Peggio ancora liberarli con una grazia del Re: avrebbe tolto valore all'atto di energia che il governo, legalmente, aveva compiuto nei confronti di un esercito rivoluzionario.
In quel periodo non mancarono le minacce di attentati contro il re e Rattazzi e si richiese da più parti lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni. Concedere sotto la pressione dell’opinione pubblica eccitata dai gravi fatti, nuove elezioni avrebbero però significato un grosso rischio.

L’imbarazzante situazione andava risolta al più presto e l’occasione venne fornita dalle ottime relazioni che la monarchia sabauda intratteneva con il re del Portogallo Luigi I.
Vittorio Emanuele che voleva espandere la dinastia sabauda nel Mediterraneo, per procura si affrettò a dare in sposa a Luigi I la figlia, principessa Maria Pia di Savoia.
Com’era consuetudine in questi casi, il 27 settembre concesse un’amnistia ai carcerati.
In questo modo tutti i coinvolti nei fatti dell’Aspromonte tornarono in libertà, compreso Garibaldi e i 500 prigionieri garibaldini di Bard.

Si chiuse così questa vicenda, che interessò indirettamente e marginalmente anche il nostro Canavese, perdendosi nella memoria collettiva, ma per fortuna lasciando una traccia scritta, che ci ha permesso di rivivere e ricordare un evento triste e poco noto del nostro Risorgimento.



Aprile 2011





Etichette: , , , , , , , ,