martedì 8 dicembre 2015

Liberator KG 875, volo senza ritorno.

Liberator KG 875, volo senza ritorno.

Il 12 ottobre 1944, un quadrimotore con 8 uomini di equipaggio, si schianta in Val Soana.

Nell’autunno del 1944 le Armate alleate si erano attestate sull’Appennino, in prossimità della pianura Padana; in Piemonte il movimento partigiano provato, ma non vinto dall’offensiva tedesca dell’estate, era riuscito a riorganizzarsi e si stava preparando a trascorrere un altro inverno sulle montagne.
Lo stabilizzarsi del fronte e la prospettiva di una tregua di fatto durante l’inverno, indusse il generale Kesselring ad ordinare una massiccia operazione contro le formazioni partigiane, con pesanti rastrellamenti e rappresaglie contro la popolazione civile che aiutava i patrioti.
I comandi Alleati consapevoli dell’importante contributo che la lotta partigiana stava dando, impegnando intere divisioni di tedeschi, che altrimenti sarebbero state inviate al fronte, organizzarono nella prima quindicina di ottobre,  una massiccia operazione di  aviolanci di armi e materiali destinati alla Resistenza, anche se bisogna dire che essi furono ben poca cosa a confronto delle enormi esigenze della lotta partigiana.
A questo fine furono stabilite delle aree idonee e concordati messaggi radio in codice, con le formazioni della Resistenza, operanti in Liguria e Piemonte per stabilire il luogo e la data di lancio.
Per molti partigiani iniziarono notti di attese, accanto a cataste di fascine da incendiare all’ora stabilita e ad affrontare le inevitabili polemiche tra formazioni, per la suddivisione di armi, munizioni, vestiario a volte ancor prima dell’arrivo dei materiali.
Si è sempre saputo poco sugli obbiettivi e sui destinatari di questa operazione, ma ora, grazie ed un’accurata ricerca di Beppe Barbero, che ha messo a confronto la documentazione disponibile si può stabilire che gli obbiettivi ai quali destinare gli aiuti erano quattro: il primo denominato CHRYSLER era la zona dell’Ossola; il secondo MORRIS era ubicato ad est di Genova; gli altri due: DODGE e PARROT: per queste due aree di lancio  l’identificazione risulta più incerta, ma si ritiene però che la prima zona fosse nei pressi di Bra, mentre la seconda tra Vigone e il Torrente Pellice.
L’attuazione di questa missione fu  assegnata al 31° e 34° Squadrone della South African Air Force, inquadrati nella R.A.F. Questi due squadroni erano stati costituiti il primo, nel gennaio 1944 e il secondo nel luglio dello stesso anno. Il personale sudafricano, giunse in Egitto e una parte di piloti e specialisti si recò in Palestina per addestrarsi sugli aerei  Liberator 24 messi a disposizione dagli americani.
Dopo alcune operazioni nel mar Egeo, a metà giugno, gli aerei furono spostati all’aeroporto di Celone, vicino a Foggia, già occupato dagli americani.
Da luglio a settembre, questi squadroni, con equipaggi misti formati in prevalenza da sudafricani ed inglesi, cominciarono le operazioni belliche sui Balcani con bombardamenti alle raffinerie ungheresi e romene e con arditi lanci di mine, lungo il corso del Danubio per ostacolare i rifornimenti alla Germania attraverso quell’importante via d’acqua.
 Nella prima decade di ottobre il maltempo influì pesantemente sull’operatività dell’aeroporto di Celone con veri e propri allagamenti che avevano reso la pista inagibile e questo fece continuamente slittare la massiccia operazione di rifornimento ai partigiani del nord Italia.
Il maltempo era destinato a durare, ma una breve fase di condizioni meteorologiche accettabili, fu prevista per il giorno 12 ottobre e così venne dato l’avvio a quella che si rivelerà come la più disastrosa e tragica missione costata alla S.A.A.F.: 6 aerei e 48 uomini di equipaggio, persi nel giro di qualche ora non perché abbattuti dal nemico, ma per incidenti causati dalle pessime condizioni meteorologiche.
Un tragico destino penalizzò il 31° squadrone al quale fu chiesto di rendere operativi tutti gli equipaggi e i 16 aerei disponibili, ai quali si aggiunsero solo 4 del 34° squadrone, per permettere al personale di partecipare ad una festa da ballo organizzata a Foggia.

Quel tragico 12 ottobre ’44, fu quindi pianificato l’invio di venti aerei, cinque per ognuna delle zone di lancio previste. Un impegno notevole che richiese una preparazione complessa. I meccanici ed il personale di terra lavorarono tutto il giorno; si caricarono nel vano bombe di ogni aereo 12 contenitori paracadutabili da 300 libbre (150 Kg), mentre agli equipaggi venivano illustrati gli obbiettivi e vennero rese note le coordinate e le segnalazioni ottiche concordate per il riconoscimento degli obbiettivi a terra.
Intanto le condizioni meteorologiche, non migliorarono di molto rivelandosi peggiori del previsto, soprattutto nei cieli del nord-Italia, con una nuvolosità estesa tra i 1500-3000 metri, ma la macchina organizzativa si era messa in moto e nonostante ciò fu dato l’ordine di decollare.
I giganteschi quadrimotori Liberator 24 rullarono sulla pista  e decollarono tra le ore 16:00 e le 16:40, dirigendosi sulla verticale dell’isola di Ponza, per poi raggiungere, sempre sorvolando il mare, le coste della Liguria e da qui agli obbiettivi assegnati.
Da notare che gli aerei dovettero affidarsi alla navigazione cieca con grande preoccupazione dei navigatori e dei piloti che si rendevano conto della pericolosità di tali operazioni in un’area circondata da montagne di quota elevata.
Quando sorvolarono il Piemonte erano quasi le ore 20, e il buio e il cielo coperto costrinsero i piloti a scendere al disotto della quota di sicurezza nel tentativo di avvistare qualche segnale per poter effettuare i lanci. Fu una manovra rischiosissima, che segnò tragicamente la missione.
Dei venti aerei partiti solo tre riuscirono ad effettuare il lancio degli aiuti, altri 11 dopo aver inutilmente cercato di individuare gli obbiettivi, rientrarono alla base e i restanti 6 velivoli furono attesi invano e nessun collegamento radio poté essere stabilito con loro.
Trascorso il tempo limite di autonomia e senza comunicazioni da altre basi in merito ad eventuali atterraggi di fortuna o segnalazioni sulla loro sorte, furono dichiarati dispersi.
L’impatto psicologico sul reparto fu pesantissimo con la perdita di 48 uomini, tutti del 31° squadrone, in una missione che sarebbe stata non particolarmente pericolosa se svolta con tempo meteo buono, in quanto nessuno degli aerei rientrati aveva segnalato l’intervento dell’antiaerea a parte una debole reazione nell’area di Genova, né erano stati segnalati caccia notturni in azione.
Le ipotesi sulle perdite si concentrarono da subito sull’eventualità di incidenti contro le montagne e successivi rapporti delle missioni alleate in Piemonte  confermarono la tesi segnalando il ritrovamento da parte dei partigiani di due aerei schiantatisi sulle montagne a Ovest dell’obiettivo PARROT.
Per gli altri equipaggi caduti in aree più impervie fu necessario attendere la fine delle ostilità, quando con la raccolta di segnalazioni sul rinvenimento di aerei alleati abbattuti o precipitati, fu possibile risalire alle località degli incidenti e ai luoghi di sepoltura degli aviatori.
Di un velivolo destinato alla missione MORRIS, non fu mai possibile reperire alcuna notizia, così che si ipotizzò che potesse essere disperso in mare, anche in considerazione della vicinanza  della zona di lancio alla costa.

Quella tragica sera, la Valle Soana era sferzata dalla pioggia e tutte le montagne coperte da una spessa coltre di nubi, il buio era già sceso e gli abitanti si erano ritirati nelle loro case, quando un forte bagliore illuminò la valle seguito da un forte boato.
Subito fu chiaro a tutti che non poteva essere stato un fulmine e si affacciarono sull’uscio a scrutare il cielo.
Nazzareno Valerio, “Eno” per tutti, guida alpina, all’epoca aveva solo 7 anni, ma degli eventi di quella notte ancora si ricorda e in un’intervista rilasciata al giornale “La Stampa” disse che quella sera, dopo il boato, si intravidero tra le nebbie delle lingue di fuoco e dei bagliori alzarsi nell’alta valle dell’Arlens, oltre i 2200 metri, quasi sullo spartiacque fra la Val Soana e la Val Chiusella.
Quello schianto era la fine del volo dell’aereo contrassegnato KG875, uno dei 20 Liberator decollati dall’aeroporto di Celone in Puglia e uno dei sei precipitati  di quella sfortunata missione.
Era decollato alle 16.15 e aveva come obbiettivo la zona denominata CHRYSLER che comprendeva la bassa valle del Toce a nord del lago d’Orta.
Non si conosce la dinamica dell’incidente, potrebbe essere che giunto sulla Liguria, abbia seguito l’arco alpino per evitare di essere individuato e attaccato e probabilmente per le pessime condizioni meteorologiche o uno sbaglio di rotta aver urtato il crinale tra la Valle Soana e la Val Chiusella.
Certo è che non vi fu scampo per l’equipaggio, che era formato da 8 uomini al comando del sudafricano capitano pilota Beukes Leonard von Solms di 27 anni, nato a Pretoria nella regione del  Transvaal, sposato e da poco padre di una bimba. Gli altri membri dell’equipaggio erano tre sudafricani e 4 inglesi, due avevano appena 20 anni.
Il luogo impervio in cui l’aereo cadde e le successive abbondanti nevicate, ostacolarono il recupero delle salme, che furono portate a valle solo nella  primavera del 1945 ed inumate nel cimitero di Pianetto.
 Appena fu possibile iniziò però il saccheggio dell’aereo e dei materiali non andati distrutti nello schianto.
Molte lamiere divennero coperture per le baite e parti dell’aereo furono smontate e utilizzate per gli usi più svariati, suggeriti dalla penuria di quegli anni di guerra; i rottami della carcassa divenne una miniera di metalli ferrosi, ma anche pregiati come l’alluminio, il rame, ecc. molto ricercati all’epoca.
Intanto con l’avvenuta Liberazione, le autorità del governo militare alleato avevano iniziato il lavoro di ricerca e censimento delle località in cui erano sepolti i caduti alleati, raccogliendo le segnalazioni delle formazioni partigiane e delle autorità comunali.
Una delegazione Alleata venne anche in Val Soana e organizzò la riesumazione degli otto aviatori facendoli portare a Trenno, nella periferia milanese dove sorge il Cimitero di guerra di Milano e riposano 417 caduti della seconda guerra mondiale, appartenenti alle nazioni del Commonwealth che parteciparono alla lotta di liberazione in nord Italia.
La stessa delegazione scrisse in una sua relazione, che l’aereo“ Liberator caduto sulla montagna dell’Arlens, venne letteralmente smantellato dagli abitanti delle valli.” Da allora degli 8 aviatori e dell’aereo quasi si perse la memoria e pochi erano quelli che conoscevano l’esatto luogo dello schianto. Chi scrive, qualche anno fa, ha avuto l’occasione di partecipare insieme ad un gruppo di amici, tra i quali il direttore del Canavèis, ad un’escursione guidata da Lino Fogliasso su quelle montagne. Dopo una lunga marcia giungemmo sul luogo dell’impatto e fu un momento toccante il rivivere con il pensiero la tragedia di quegli otto giovani avieri, due dei quali appena ventenni.
Nei dintorni alcuni pezzi dell’aereo erano ancora incastrati tra le rocce del torrente e il più grande, la parte terminale del carrello, aveva l’ammortizzatore che sosteneva i pneumatici ancora  con la cromatura luccicante.
Lo scorso anno grazie al Soccorso Alpino e alla Pro Loco di Valprato Soana, che hanno voluto l’iniziativa, questo reperto è stato trasportato a valle con l’elicottero e adagiato accanto ad un masso di granito, ed ora costituisce il monumento dedicato ai caduti del Liberator KG875.
La cerimonia di inaugurazione si è svolta a Pianetto dove sorge il monumento e con le Autorità civili militari e religiose erano presenti anche un gruppo di parenti dei caduti giunti per l’occasione dal Sudafrica e dall’Inghilterra. Sono stati momenti commoventi, con la banda degli alpini che suonava i rispettivi inni nazionali e un famigliare delle vittime che scandiva i nomi dei caduti.
Dopo quasi 70 anni, quei ragazzi venuti da lontano, che dettero la loro vita per aiutare altri ragazzi, che tra quelle montagne lottavano per una causa comune, finalmente sono  ricordati e i loro nomi sono scolpiti nella lapide che ricorda il loro sacrificio.



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